Oggetto delle attenzioni degli ambientalisti, i metodi di pesca del tonno sono stati spesso al centro di proteste per l’impiego di sistemi dannosi per l’ecosistema marino, come FAD (Fishing Aggregating Devices) e palamiti, che catturano indistintamente ogni tipo di organismo, incluse le specie a rischio di estinzione.
Proprio per questo motivo, la pesca del tonno si è sviluppata nel tempo in direzione di tecniche più sostenibili, come le reti a circuizione che isolano soltanto il branco selezionato e non danneggiano i fondali, e ha portato ad un ritorno alla pesca tradizionale all’amo.
Le prime testimonianze strutturate sulla pesca del tonno risalgono a popoli mediterranei, come la civiltà dei Fenici, i quali usavano coniare monete che ne riportavano l’effigie, mentre sembra che la tecnica di cattura della mattanza fosse già nota ai Greci.
Fino al ’700 il tonno viene consumato solo dopo essere stato cucinato, conservato sotto sale, oppure immerso in salamoia o sott’olio, come era consuetudine fin dai tempi dell’Impero Romano. Dal 1810 inizia a farsi strada il metodo di conservazione ideato dal francese Nicolas Appert, che introduce l'uso di barattoli di vetro sigillati con la cera.
Sarà poi a partire dagli anni ’70 del secolo che il commercio del tonno riceverà una grande spinta grazie ad un’innovazione decisiva: l’utilizzo di scatole di latta a chiusura ermetica, che vengono sottoposte alla sterilizzazione tramite cottura a bagnomaria, per evitare quanto più possibile i casi di deterioramento del prodotto, portando sugli scaffali il tonno in scatola che oggi ben conosciamo.
Questo tipo di confezionamento avrà molto successo durante le due guerre, conferendo durevolezza ad un prodotto dotato di valide proprietà nutrizionali in un periodo di penuria e difficoltà, e darà vita in seguito alle pratiche monoporzioni tipiche del boom economico.